lunedì 7 settembre 2009

Università e Ricerca

Forse vi è capitato di leggere, negli ultimi mesi, qualche articolo equilibrato (e dal tono pacato) che riguardi l’Università; a me (lettore distratto di quotidiani) no. Ne hanno scritto e parlato in tanti (troppi), certo; e però raramente (per non dire quasi mai) mi è capitato di leggere o ascoltare interventi di professori universitari che piú di altri avrebbero avuto diritto a farlo: i professori, intendo, ai quali non si può rimproverare nulla vuoi perché fanno il loro dovere come docenti vuoi perché si sono fatti come studiosi un nome in ambito internazionale. Ma può darsi che per questo tipo di professori, che solitamente non hanno una tessera in tasca, sia piú facile trovare spazio in una delle riviste del settore piú accreditate al mondo che non in un quotidiano italiano.

L’Università italiana esce dal dibattito di questi mesi con le costole rotte (e un’immagine compromessa nel mondo). Intendiamoci, ci voleva. Ma si è andati un po’ troppo sopra le righe. E forse si è capito, o si comincia a capire (d’altronde meglio tardi che mai), che attacchi spesso sconsiderati da una parte, difese ad oltranza dall’altra non servono; e di sicuro non servono all’Università e alla ricerca.

Ora occorre riavviare la discussione in modo equilibrato e costruttivo, facendo naturalmente tesoro delle critiche giuste e senza dimenticare l’assunto principale: la gran parte della ricerca nel nostro Paese si fa nell’Università. E allora via le cosiddette ‘legittime aspettative’ (anzianità e servizi vari prestati), e largo ai meriti scientifici dei giovani candidati. Basta con i corsi di laurea ‘facili’ che non preparano (e sono inutili per qualsiasi lavoro). E, soprattutto, basta col tirare nel mucchio e fare di ogni erba un fascio, come se nell’Università italiana non ci fossero professori che fanno il loro dovere e sono apprezzati nel mondo per la loro scienza.

Scienziati non ci si improvvisa. Esiste un’anagrafe d’Ateneo e un’anagrafe nazionale della ricerca; esistono periodici scientifici nazionali e internazionali che dànno conto, settore per settore, dei titoli scientifici prodotti; ci sono, per i titoli scientifici piú rilevanti, le recensioni ad opera degli addetti ai lavori di tutto il mondo (francesi, tedeschi, inglesi, americani, spagnoli …). Sono questi gli strumenti con cui si quantifica e valuta la ricerca mondiale, e ovviamente anche quella italiana. La quale — a dispetto delle tante magagne — conta ancora nell’Università tradizioni di studi eccellenti anche sul piano internazionale.

Ma le eccellenze, che pure ci sono nell’Università italiana, vanno difese e coltivate. Da maestro ad allievo, occorrono decenni per formare una ‘scuola’; e basta un niente per distruggerla e gettare nello sconforto valenti ricercatori, mal pagati e senza un futuro. La loro frustrazione in patria (di cui troppo poco si parla) produce molto piú danno che non la cosiddetta fuga dei cervelli (di cui invece si parla molto, a scopo strumentale). E qui non è questione di singoli provvedimenti governativi, la cui attuazione — comunque benvenuta — potrebbe tutt’al piú alleviarne la sofferenza. Occorre cambiare rotta e mutare forma mentis. Occorre considerare che, se nella vita fai l’imprenditore, godi di agevolazioni fiscali per gli utili che reinvesti nell’azienda; mentre, se sei uno studioso, spendi senza ritorno alcuno una quota del tuo stipendio per acquistare libri che ti assistono nella ricerca (... e fai la figura del cretino rispetto al collega che percepisce uno stipendio come il tuo, ma utilizza il suo denaro in modo piú ‘proficuo’). Perciò cambiare rotta non basta: occorre mutare forma mentis e cominciare a incentivare e valorizzare davvero il merito scientifico.

La valorizzazione del merito nell’ambito della ricerca universitaria sarebbe (a sentire quotidiani e fonti governative) una delle preoccupazioni, anzi la preoccupazione maggiore dell’ultimo decreto ministeriale. Detto fatto. L’articolo 1, comma 7 — valutazione delle commissioni per concorsi a ricercatore — recita: “La valutazione comparativa è effettuata sulla base dei titoli e delle pubblicazioni dei candidati, ivi compresa la tesi di dottorato, utilizzando parametri, riconosciuti anche in ambito internazionale …”. Tutto qui? Tutto qui.

Ho avuto la fortuna di sostenere, in qualità di candidato un tempo e poi in veste di presidente di commissione, il primo e l’ultimo concorso a ricercatore secondo la formula che è stata messa ora in soffitta. Ragion per cui vorrete comprendermi e perdonarmi se aggiungo, un po’ bruscamente: di quali consulenti si vale il ministro? Chi sono questi geni tutelari della “valorizzazione del merito” che hanno sostituito il precedente severo concorso da ricercatore con una valutazione dei titoli e delle pubblicazioni alla luce di parametri anche internazionali, la cui oggettività (specie per le discipline del settore umanistico) è una pia illusione?

Si rammenti che il precedente concorso da ricercatore prevedeva: una valutazione preliminare dei titoli e delle pubblicazioni dei candidati, due prove scritte (oppure una prova scritta e una pratica), un esame orale finale (con accertamento, ove previsto nel bando, della conoscenza di una o piú lingue moderne). Sicché, in buona sostanza, le due prove scritte — ciascuna delle quali su titolo sorteggiato tra tre proposti dalla commissione — rappresentavano (ancor piú delle altre prove) la speranza (fondata) del candidato capace, ma ‘non raccomandato’, di veder riconosciuti i propri meriti.

Pare comandamento divino che ogni governo debba promulgare la propria legge di riforma complessiva dell’Università. Si cambia, ogni volta, le cose che non vanno; e anche quelle che vanno (o sono comunque migliori di quelle che le sostituiscono). L’Università (che altro potrebbe fare?) si adegua, ma non fa a tempo ad adeguarsi alle normative della legge da poco varata che già deve recepire le nuove, che buttano gambe all’aria le precedenti. Sgomento e confusione. Schiere di professori impegnati a decifrare le nuove direttive di legge — concepite, di regola, senza il loro concorso e scritte in modo pessimo — consumano il tempo e la carriera in riunioni (insulse e) interminabili redigendo sempre nuovi ordinamenti, quasi fosse questa (la stesura di ordinamenti e regolamenti attuativi dell’ennesima nuova legge) la ragione principale, se non l’unica, per cui stanno all’Università ...

Appunto per la valorizzazione del merito, per la qualità futura della ricerca (e contro il conclamato nepotismo nell’Università); insomma per una buona Università e una altrettanto buona ricerca, converrà — a tutti — ripensarci e domandarsi seriamente a cosa serve questo gran bailamme.

Loriano Zurli

giovedì 3 settembre 2009

... e la lingua italiana?

Tutti a scuola di inglese. Oltre all’inglese onnipresente nelle nostre scuole, spunta ora — nelle nuove regole per la formazione dei docenti — anche la «specializzazione per l’insegnamento alle superiori di una materia non linguistica in inglese» (La Nazione, sabato 29 agosto). Lodevole. Ma all’italiano chi ci pensa? Oggi in Italia si fatica a trovare una tesi magistrale – ho detto tesi magistrale – scritta in un italiano decente (senza, cioè, errori madornali di grammatica). È questo il problema più imbarazzante (che nessuno vuol confessare); e il bello è che le Università nostrane non sanno come affrontarlo (e, a dire il vero, neppure arginarlo).

Loriano Zurli

ordinario di Filologia latina

Università di Perugia