lunedì 17 novembre 2008

L'Università sotto accusa

La discussione dai toni roventi ha fatto perdere di vista, in questi giorni, la situazione reale dell’istruzione italiana e alimentato una lotta di tutti contro tutti, che non fa che recare danno ulteriore all’istruzione nel suo complesso. Nei giornali, come in televisione, critica generalizzata: si tira nel mucchio; nessuno prova a secernere ciò che nell’istruzione italiana va da ciò che non va, ed è perciò suscettibile di cambiamento. Il risultato è ch’essa — l’istruzione italiana — viene screditata, avvilita, vilipesa nel suo complesso; senza che si sia prodotto un solo elemento di giudizio utile al rinnovamento, di cui pure c’è bisogno.
Occorre anzitutto chiedersi: è giusto? Esponenti di forze politiche, giornalisti, mass media stanno cioè operando in modo giusto? E per chi? Per il Paese no di certo. Il cui comparto istruzione ne uscirà con le ossa rotte e un’immagine fortemente compromessa nel mondo.
Sarà poi vero ciò che leggiamo nei giornali e ascoltiamo in televisione, che cioè l’istruzione e la ricerca italiane sono talmente indietro che nessuna Facoltà negli Atenei italiani figura tra le prime 150 o 200 del mondo? Una cosa è sicura: di qui a dire che non ci sarebbero in Italia studiosi e ricercatori autorevoli in grado di competere con i migliori del mondo, per l’opinione pubblica influenzata dai mass media, il passo è breve. Ed è cosa parimenti sicura che le chiacchiere vacue e denigratorie, che in questi giorni abbiamo ascoltato tutti, anziché risollevare lo spirito della ricerca italiana, la gettano nello sconforto più profondo. Sconforto profondo, quanto immeritato giacché la ricerca italiana, pur con tutte le difficoltà in cui è costretta, non assomiglia neppure — per fortuna — a quella mediocre, provinciale e quasi inesistente, dipinta in questi giorni con tinte tanto fosche.
Intendiamoci: c’è del vero, e molto, nella somma di ragioni pro e contro, addotte dall’una come dall’altra parte. Inutile negarlo: ci sono, negli Atenei e nelle Facoltà nostrane, lassismo e inefficienza; e in essi si rispecchia l’incuria cronica dei governi centrali e la conseguente precarietà strutturale, che ha impedito e impedisce a tanti giovani capaci di coltivare la loro attitudine alla ricerca. La frustrazione dei ricercatori in patria (cosa di cui quasi mai si parla) produce — si badi bene — molte più perdite che non la cosiddetta fuga dei cervelli (di cui invece si parla molto, anche a sproposito).
Certo è che a lassismo, inefficienza e anche nepotismo non si pone rimedio sventolando sui giornali graduatorie internazionali di contestabile attendibilità. Al contrario si produce un danno, e grave. Giacché la parte migliore della ricerca italiana sparisce inghiottita in graduatorie e statistiche che fanno di ogni erba un fascio, e dànno la falsa impressione che quasi non esista in Italia una ricerca eccellente. E di eccellenza di una parte almeno della ricerca italiana è, invece, il caso di parlare. Non foss’altro che per proclamarne l’esistenza messa in dubbio e dissipare in tal modo l’imbarazzo avvertito, in questi giorni, dai migliori ricercatori italiani, le cui opere pur apprezzate nel mondo sono come scomparse sotto il biasimo generale dell’Università italiana. Quand’anche infatti gli Atenei e le Facoltà italiane non figurassero a ragione tra le Università più quotate nel mondo, si toglierebbe qualcosa al fatto assodato che l’Italia conta nelle sue Università autorevolissimi studiosi e specialisti, la cui scienza — come riconoscono gli specialisti di tutto il mondo — è pari a quella dei più stimati colleghi esteri?
Il personale universitario — si vocifera da più parti — è in eccesso. Troppo generico, bisogna vedere le singole realtà: alcuni ambiti meritevoli sono in difetto di personale, altri probabilmente in eccesso. E chi parla di personale in eccesso dovrebbe spiegarci a che servono — a chi lo sappiamo — tutte queste Università distese nel territorio e le Università telematiche. Anche perché, come tutti sanno, non basta un atto formale di istituzione per creare un’Università, dall’oggi al domani. La si può dotare a breve di ambienti che la ospitano anche decorosamente, di materiali tecnologici d’avanguardia e di ogni altro arredo, ma non tutto si può improvvisare: e occorre tra l’altro una tradizione, nella maggior parte dei casi plurisecolare, per mettere assieme i patrimoni librari di una biblioteca vera, indispensabile alla collettività accademica.
Le eccellenze, che pur ci sono in Italia, vanno difese e coltivate. Occorrono decenni per formare una scuola d’eccellenza e basta un provvedimento sbagliato per distruggerla. I tagli indiscrimati al Fondo di finanziamento ordinario dell’Università sono una sciagura: non risolvono nessuno dei problemi cronici dell’Università italiana ed esasperano la già precaria situazione di coloro che promuovono e fanno ricerca attiva e apprezzata nel mondo.
Ma attenzione: questi tagli ai fondi di finanziamento ordinario all’Università non vogliono dire soltanto che lo Stato investe di meno nell’istruzione e nella ricerca e che, pertanto, gli Atenei devono spendere meglio ed ancor meno di quel poco che viene loro dato attualmente. Fonti governative parlano di ben cinque Atenei già adesso in condizioni fallimentari, mentre tutti gli altri annaspano e sono in grave sofferenza; qualche Rettore di Ateneo (tra quelli che stanno meglio) lo ha già detto: per il mese corrente chiederà un mutuo per pagare gli stipendi, per i mesi a venire buio completo. E qui entra in gioco — ecco il punto — l’art. 16 della contestata legge 133 di questo agosto, il quale prevede la ‘facoltà’ di trasformazione delle Università statali italiane in fondazioni di diritto privato. Inizialmente quest’articolo è sembrato a molti poco più che una dichiarazione d’intenti dell’attuale governo, pochi hanno afferrato subito cosa significasse in concreto. Ora il suo significato è diventato chiaro (e i ricercatori e gli studenti scesi in piazza a protestare mostrano di averlo capito). Significa che le Università statali che coi pochi soldi provenienti dallo Stato non ce la fanno a tirare avanti, praticamente tutte, saranno costrette a chiedere finanziamenti ai privati. E siccome il capitale privato non dà nulla per nulla, le Università faranno ricerca applicata a pro di soggetti privati che le finanziano: e addio ricerca di base italiana.
Gli esponenti di governo, e non solo il ministro Gelmini, mettono sotto accusa certo malcostume dell’Università italiana — a cominciare dal nepotismo — e si propongono, a parole almeno, di estirparlo. Intento lodevole che non si può che condividere: il nepotismo, ma anche il favoritismo spicciolo in sede d’esame, non sono solo odiosi e ripugnanti di per sé: negano il merito ossia il requisito unico e essenziale che l’Università è deputata a valutare. Ciò premesso, non mi si venga a dire che il nepotismo e le altre piaghe che affliggono l’Università si curano trasformando le Università pubbliche in fondazioni di diritto privato. Voglio vedere quale professore, in regime di fondazione privata, avrà il coraggio di bocciare il figlio o il parente prossimo di un munifico sponsor del suo Ateneo. L’Università uguale per tutti, pur con gli accresciuti sacrifici di questi ultimi anni, gli studenti italiani se la devono dimenticare.
Quanto all’organizzazione scientifica degli Atenei, posto che il ministro Gelmini è persona sicuramente accorta ed intelligente, che vuole difendere e non sfasciare quanto c’è di buono nel sistema universitario italiano, ci si deve domandare, con franchezza: cosa ne può sapere il ministro, nei suoi 35 anni, quali e quante sono le eccellenze dell’Università italiana, se alla mia non più verde età, dopo un ventennio di ordinariato, non saprei indicarne che alcune (per esperienza diretta)? Ecco allora che il ministro, per avere il polso della reale situazione universitaria italiana, non può agire di testa sua sdegnando di dialogare con chi all’Università e alla ricerca ha dedicato tutte le sue forze.
Se vuole, potrà costituirsi, il ministro, uno staff di consulenti formato dai docenti più autorevoli delle discipline e meglio ancora dei raggruppamenti disciplinari che rappresentano nel loro complesso la scienza professata e insegnata nelle Università italiane. Difficile da realizzare? Ma se all’interno di ogni ambito disciplinare i nomi dei docenti più autorevoli, la cui scienza è apprezzata in Italia come all’estero, sono noti a tutti! Il ministro che intenda appoggiarsi a uno staff di consulenti scientifici veri (piuttosto che a sedicenti esperti più o meno politicizzati del mondo universitario) non ha che da scegliere. Col loro ausilio sarà certo in grado di individuare le esigenze vere dei settori, le iniziative che occorre incoraggiare, gli eventuali sprechi da tagliare, il malcostume da combattere.
C(onsiglio) U(niversitario) N(azionale), C(onferenza dei) R(ettori delle) U(niversità) I(taliane), Conferenza Nazionale dei Presidi ed altri ancora, sono organi indispensabili per il governo dell’Università italiana. Indispensabili, ma probabilmente non sufficienti a tale scopo: il ministro si valga dunque, in aggiunta, della consulenza diretta che possono fornire i più illustri rappresentanti di settore, la cui autorevolezza è riconosciuta dal corpo accademico; e presti orecchio al coordinamento e alle rappresentanze degli studenti che sperimentano sulla propria pelle i disagi, siano essi imputabili al cattivo funzionamento dell’Università italiana nel complesso, che riscontrabili sede per sede.
Ben poco si salva delle leggi di riforma dell’Università varate in questi ultimi anni, a dispetto del continuo legiferare in materia. È quasi una regola che ogni governo in carica promulghi la propria legge di riforma dell’Università. Come? Riscrivendola in toto, ci sia o no qualcosa di buono da conservare della legge precedente. Le Facoltà ne prendono atto e si adeguano, ma non fanno a tempo ad adeguarsi alle normative della legge da poco varata che già devono recepire le nuove. Schiere di professori impegnati a decifrare le nuove direttive di legge consumano il tempo e la carriera redigendo, a pro della didattica dei diversi corsi di laurea, ordinamenti su ordinamenti quasi fosse questa (la stesura di ordinamenti e regolamenti) la ragione principale per cui stanno all’Università. I docenti che impiegano la massima parte del loro tempo a far ricerca sembrano, in certa misura, sottrarsi al loro compito istituzionale.
Di regola le riforme dell’Università si apprestano senza i professori, a loro insaputa e senza il consenso del corpo accademico. Salvo poi gettare loro la croce addosso, recitando la vecchia storiella sessantottina dei baroni e dei potentati accademici, allorché le cose non funzionano. E adesso non funzionano a tal segno che il problema numero uno di tutte le Facoltà italiane (Lettere inclusa) è diventato non tanto la qualità della tesi di laurea — la tesi ‘magistrale’ intendo — che si va a valutare, ma l’italiano in cui questa è scritta: un italiano non solo sciatto, ma scorretto grammaticalmente. Di fatto le generazioni precedenti apprendevano le strutture della lingua italiana già nella media inferiore studiando il latino; oggi non è più così, la lingua madre delle lingue europee, che non a caso si chiamano ‘neolatine’, non si studia più nella media inferiore e sempre meno negli istituti di media superiore ove ancora è prevista. E si vede.
Di contro il ministro Gemini che fa? Sempre dai giornali si apprende — dato che coi professori non parla — che aumenta le ore di inglese al liceo classico e rende opzionale al liceo scientifico il latino, che è stato sempre e dappertutto la lingua della scienza, a pro di una seconda lingua straniera. Così presto avremo folle di studenti che ignorano la lingua della scienza, ma soprattutto la lingua italiana e la storia culturale del loro Paese, e anche buona parte delle lingue e delle letterature europee, incomprensibili fino a tutto l’Ottocento e oltre senza il latino. Converrà assegnare loro la tesi di laurea direttamente in inglese, e non solo il summary come si fa già. Tanto se tra breve si dovesse deplorare la troppo scarsa conoscenza dell’italiano nell’elementare, nella media e perfino all’Università, basterà scaricare — come da collaudato copione — la colpa su maestri e professori che non sanno fare il loro mestiere.
Occorrerebbe invece far cambiare rotta, e subito, all’istruzione italiana ricominciando dalle eccellenze specifiche, che non mancano in Italia, malgrado l’opinione pubblica sia indotta a credere il contrario. Il riferimento è alle scienze, siano esse umanistiche che tecnico-scientifiche, nelle quali il sistema universitario italiano è ancora in grado di dire la sua e comunque di competere con le migliori Università del mondo. Esistono tuttora da noi — indiscutibilmente — tradizioni di studi eccellenti, cui il mondo guarda da tempo con crescente interesse, e per i quali l’Italia vanta se non un primato certo un’eccellenza riconosciuta in ambito internazionale.
Scienziati non ci si improvvisa. E il ministro dell’Università e dell’istruzione dovrebbe sapere che esistono parametri internazionali validi per il settore scientifico di pertinenza. Esiste, per tutte le scienze praticate, un’anagrafe nazionale della ricerca che fa vedere in un batter d’occhio chi e come fa ricerca attiva nel Paese; esistono periodici scientifici nazionali e internazionali che dànno conto, settore per settore, dei titoli scientifici apparsi nell’annata; ci sono, per i più recenti e rilevanti titoli scientifici, le recensioni nei periodici specialistici scritte dagli addetti ai lavori di tutto il mondo (francesi, tedeschi, inglesi, americani, spagnoli …). Questi strumenti, tutti assieme, costituiscono il metro dell’eccellenza: il metro vero con cui si quantifica e valuta la ricerca mondiale, e ovviamente anche quella italiana.
Il ministro dell’Università e dell’istruzione italiana — di qualsiasi estrazione politica, esperto o novizio che sia del dicastero cui è messo a capo — non può prescindere dalla conoscenza di siffatti strumenti di giudizio: in essi trova indicati i valori effettivi della scienza italiana; in essi può trovare i suoi partners per una corretta valutazione del sistema universitario italiano, e anche i consulenti per il suo staff scientifico a salvaguardia delle eccellenze della ricerca e a profitto del rinnovamento dell’Università del nostro Paese.
Molto di ciò che in questi giorni si è letto e sentito con la scienza ha poco o niente a che spartire. E invece per la scienza, l’Università e l’istruzione italiane è tempo di certezze e di dati oggettivi. I dati oggettivi ci sono, e un ministro credibile dovrebbe valersene e non far finta che non esistano o che ne esistano altri più attendibili. L’Università si riforma dialogando con l’Università, almeno con le sue forze migliori. Il ministro Gelmini lo tenga presente: tenga presente che, in fin dei conti, l’Università non è causa dei suoi mali; e che anzi è stata, sempre e solo, spettatrice delle riforme che ne stanno producendo lo sfascio.
Anche se sotto accusa oggi c’è solo l’Università nel suo complesso, quasi non ci fossero al suo interno scienziati eccellenti e valenti professori che fanno il loro dovere, professori, insomma, ai quali non si può rimproverare nulla e che nulla hanno da rimproverarsi. Malgrado subiscano, in questi giorni, le conseguenze di uno scriteriato linciaggio mediatico che getta fango su tutto e su tutti, senza guardare al problema vero di questa Università malata, che ci si appresta a curare, ancora una volta, con lo stesso metodo fallimentare: una riforma globale che piove dall’alto, senza dialogo e confronto diretto con studenti, professori, ricercatori.

Loriano Zurli